L'Inferno di Dante

La "grande impresa"

Giunto alla pienezza della sua maturità artistica, lo scultore Benedetto           Robazza, sembra aver voluto tirare le fila della sua lunga e intensa esperienza umana, e del suo lavoro che lo ha portato al successo in giro per il mondo, con una impresa di vasto respiro creativo e di alto segno morale. Avendo conosciuto, come uomo e come artista, tutte le strade della solitudine, della miseria e del dolore, e avendo sofferto vittoriosamente una sua lunga e privata lotta fra il bene e il male fin dalla lontana fanciullezza, era quasi prevedibile che la sua mente e il suo spirito si volgessero al testo più alto e più temibile della nostra letteratura, della poesia del mondo, cioè alla Divina Commedia, e, più particolarmente, all’ Inferno, dove i fantasmi della colpa e della punizione appaiono come la più tremenda metafora dei dissidi, dei tormenti, delle lacerazioni dell’animo umano.

L’ Inferno, dunque. L’Inferno come un grande specchio in cui si riflette la condizione stessa del nostro vivere, delle lotte che dilacerano l’uomo nella sua aspirazione al bene e nell’attrazione ineluttabile del male, ma anche i tragici tumulti della storia, le lotte fratricide, i grandi egoismi ammantati di false idealità. Tutto questo certamente Robazza deve aver veduto e sentito nel “suo” Inferno, che viene dopo tante opere in cui il maestro ha stigmatizzato le colpe della convivenza civile, le tirannie, i soprusi, opere con le quali si è fatto testimone del dolore del mondo, e dell’ingiustizia della storia.

Ecco dunque quest’opera gigantesca, questo impegno totale, che ha richiesto certamente anche una straordinaria forza fisica, una vigile tensione morale, una lotta continua con la resistenza della materia, e con l’angustia dello spazio.

Il maestro Robazza ha fatto propria la visionarietà dantesca, portando al suo vertice espressivo la sua naturale tendenza a “far grande”, ad amplificare i gesti dei suoi personaggi, a dar loro una carica espressionistica, pur nel forte realismo, che è la connotazione più riconoscibile della sua scultura. E insieme a dare una decisa e leggibile impronta fisionomica ai volti dei personaggi che lui chiama alla vita della forma, come già nella serie ricca e famosa dei suoi ritratti che lo hanno fatto chiamare dalla presidenza degli Stati Uniti alla coorte di Thailandia. Non credo che Robazza abbia avuto esitazione nello scegliere il mezzo, cioè il genere scultoreo con cui realizzare questa grande impresa. Non, ovviamente, il “tutto tondo” che appare improponibile per un così vasto racconto, né il semplice bassorilievo che, considerato anche il carattere e la sensibilità dell’artista, avrebbe di troppo attenuato la perentorietà dei gesti, la drammaticità delle azioni,

la forza della rappresentazione. E invece, giustamente, l’alto rilievo, lo strumento più congeniale alla sua arte, che ha sempre fatto suonare con orchestra piena e che, in questo cimento, il maestro regola su registri che vanno dal più forte e incisivo oggetto, fino al più pittorico “stiacciato”, ottenendo effetti di grande suggestione.

Gli esempi nella sua folta produzione non mancano a preannunciare questa logica scelta, e basterebbero, anche se di più limitate proporzioni, opere come “Panico”, “La nostra vita”, “La vittoria di David”, o, meglio, la stele “Roma 13 novembre 1982” collocata nel romano Viale Mazzini, all’esterno della chiesa “Cristo Re”.

Ma c’è un altro carattere dell’arte del maestro Robazza che poteva preannunciare il progetto, il sogno di questo ciclo, ed è la sua naturale “narratività”. Già riscontrabile nella sua stagione pittorica di matrice realistica, nella quale la carica espressionistica è affidata all’irruenza del colore, (e si vedano opere come “Alluvione”, come “Apocalisse”) quella sua predisposizione al narrare, è evidente, in tutta la sua felicità espressiva, nella forza sintetica di tre pannelli di bronzo con cui Robazza “racconta l’Apocalisse” (tema che gli è evidentemente congeniale). Sono tre pannelli nei quali vibra ancora la mano dell’artista sulla creta che è come percorsa, attraversata, dall’impeto con cui è stata trattata. Sembra vi si possano ancora cogliere i gesti del modellare, e l’intervento degli “strumenti” del mestiere, le spatole, le sgorbie, che segnano, marcano, incidono, danno plasticità e rilievi ai movimenti e alle scene come quelle dei “Quattro Cavalieri e i morti restituiti dalle acque”.

A guardarli oggi, sia pure col senno di poi, queste grandi tavole (e si noti quanti sinuosi corpi di donne, e quanti cavalli impennati vi campeggiano), ci è facile immaginare che il Benedetto Robazza avrebbe teso ad un impegno ancora più vasto, che sarebbe stato folgorato, come tanti artisti nel tempo, dalla sfrenata fantasia visiva dell’ Inferno dantesco.

Per quanto tempo quel sogno è stato chiuso in lui, per quanto tempo è cresciuto nella sua mente, nel suo spirito, fino a diventare progetto, fino a farsi volontà ormai irrinunciabile di realizzazione? Alcuni anni fa, in occasione della presentazione a Roma di una sua monografia che avevo curato, nella grande sala della libreria di Remo Croce, sopra il tavolo dei prese4ntatori era appeso un pannello che rappresentava un primo incontro di Robazza con il mondo del Poema. Fu quello il germe dopo il quale l’idea ha preso corpo nella sua interezza. Ed ecco allora un continuo, sempre più fervido rapporto con quel testo: sono disegni, appunti, abbozzi che si moltiplicano e riempiono i tavoli del suo studio romano. Poi nascono i bozzetti, gli studi dei personaggi, degli ambienti, dei

mostri che i versi danteschi suggeriscono e la fantasia accresce, precisa, rende concreti. Viene poi definita l’impaginazione di ogni scena, i rapporti di equilibrio fra le figure e le masse, tra i protagonisti degli episodi e il passaggio luciferino. Tutta la materia da trattare (i trentaquattro canti) viene suddivisa in diciotto pannelli che conterranno ognuno due e più canti, o anche soltanto uno solo se le sollecitazioni del racconto trovano una maggiore rispondenza nella sensibilità dello scultore. In definitiva, nonostante si attenga al testo, deve maggiormente dare spazio e forma a quei momenti che trovano in lui una più accesa risposta creativa.  Stabilito questo piano, questa impostazione, tutto quel lungo lavoro preparatorio viene tradotto in pannelli di 60 per 70 centimetri. Ormai non resta che l’ultimo passo, il più temerario: tradurli nella misura definitiva prevista. Ma lo spazio dello studio non basta. Allora il maestro decide di trasferirsi in campagna, alle porte di Roma, verso i Castelli, dove apre in una villa un grande studio arioso e vasto che può accogliere, in tutta la sua ampiezza, il lavoro che si avviluppa.

E ora eccoli i diciotto finiti. Ogni pannello è di due metri per altezza per 2,50 di larghezza, e dunque insieme costituiscono un nastro di quarantacinque metri, e coprono una superficie di 90 metri quadrati.

La materia usata è marmo-resina, cioè una polvere di marmo pressata con una resina che conferisce una consistenza capace di resistere alle avversità atmosferiche, e ciò perché l’opera abbia la possibilità di essere esposta all’aperto, cosa che accadrà forse più volte durante il lungo giro del mondo che compirà prima di tornare a Roma in occasione dell’Anno Santo. Una materia più resistente ma anche più leggera del marmo, e sulla quale l’artista ha lavorato direttamente nell’ultima fase, come gli antichi, portandovi lo scatto della mano, il fremito dell’emozione che crea. LUCIANO LUISI

Robazza's masterpiece

On recalling his artistic maturity, the sculpture Benedetto Robazza seems to have wanted to draw on his long and intense human experience and on his work which had brought him success around the world, with a deed or vast creativity and hight moral tone. Since he had known, as a man and as an artist, all the paths of loneliness, misery and pain and had suffered victoriously a long and private fight between good and evil since the early days of his childhood, it was almost inevitable that his spirit would turn to the highest and most redoubtable theme of our literature, the poetry of the world, that of the “Divine Comedy” and particularly that of l’Inferno or Hell, where the spirits of guilt and punishment appear as the most tremendous metaphor of conflict, torment and of the laceration of the human soul.

Hell, then, Hell like a great mirror in which are reflected our living conditions, the continual fight between striving for goodness whilst being inevitably attracted to evil, that tears man apart, but also the tragic riots in history, the fights between brothers, the great hidden selfishness or false ideals. Certainly Robazza must have seen and fealt all of this in his own “Hell” that came after many works in which the maestro had stigmatized the guilt of living together, tyrant, outrage, works which are a testimony to pain in the world and the injustice of history.

Here then, is this gigantic work of art, this total involvement, that certainly called for extraordinary strength, a watchful moral tension, a continual fight with the resistance of the substance and the narrowness of space.

Maestro Robazza has really created the vision of Dante, bringing to an expressive climax is natural tendency to enlarge, and amplify the gestures of his characters , to give them an expressive charge whilst having a strong realistic quality that  is the most recognizable feature of his sculpture.

Altogether he gives a decisive and clear physical impression to the face of the characters that he brings to life, as he has already done in the series of the rich and famous that he has represented who have called on his services from the President of the Unites States to the Court of Thailand.

I don’t believe that Robazza hesitated when choosing his medium, that is the kind of sculpture with which to complete this great undertaking. No, obviously the “tutto tondo” (or whole thing), in the simple bas-relief would seem to be unlikely for such a vast story, considering also the sensitive character of the artist, as it

would have accentuated too much the urgency of the gestures, the drama of the action, the strength of the representation. And instead, rightly, the high relief is the more just choice for is art and which he had always used to tremendous effect and this ordeal, the maestro regulates his efforts which go from the strongest and most incisive “oggetto”, to the most picturesque “Striacciato”, creating very thought provoking effects.

There are many examples in his vast repertoire which predict tis logical choice, and it’s enough, even if they are more limited proportionally, to look at works like “Panico” (“Panic”), “La nostra vita” (“Our life”), “La vittoria di David” (“The victory of David”) or better still, the obelisk “Roma 13 novembre 1982” in the roman Viale Mazzini, outside the “Cristo Re” church.

But there is another nature to the art of maestro Robazza which an expressionist charge and a trust in the impetuousness of color (in works like “Alluvione” (“Flood”) and “Apocalisse” (“Apocalypse”) is seen, and his predisposition to narrate is obvious, in all its happy expression, in the concentrated strength of three bronze panels with which Robazza tells the story of apocalypse (a them which he obviously likes). These are three panels which still vibrate from the artists hand on the clay, running through it with the strength of impact withwhich it was treated. It seem that one can still see there the movements that shaped the clay and the intervention of the artists instrument, the spatula, the gouge, that mark and cut, giving plasticity and relief to the movements and to the scenes like that of “Quattro cavalieri e I morti restituiti dale acque” (“Four knights and dead brought back by water”).

Looking at these great panels today, even whit hindsight, (note how any sinuous womens bodies and horses rearing in the fields there are) it’s easy to imagine that Robazza would have taken on something even bigger, that he would be struck ike many artists of the time, by the unrestrained fantasy of Dante’s Hell.

How long did that dream lay closed inside him, how long did it grow in his mind, in his spirit, until it became impossible to renounce? Some years ago at the presentation in Rome of one of his monographs, in the great library to Remo Croce, over the presentators table hung a panel that represented an early meeting of Robazza’s with the world of Poetry. It was this the seed of thought from which the idea took root in his mind. And here then is a continuation, ever more fervid on that theme: there are drawings, notes, scathes that multiply and fill the tables on his roman studio. Then begin the designs, the characters studies, the environment, the monsters suggested by Dante’s verse, and the fantasy increases, becomes precise and concrete.

Then each scene is drawn, the balancing done between the figures and them background, between the players of the episodes and the Lucifer landscape. All the material to be treated (34 songs) is subdivided into eighteen panels each containing two or more songs or just one if the subject of the story finds a greater response in the artists sensitivity. In the end, although he doesn’t stray from the  text, he has to give greater space and shape to those moments that find a more creative response in him. Once this plan is established, the laying of background and all that long preparative work becomes translated into panels of 60cm x 70cm. Now there was nothing left but the last step, the most daring: translate them to the size decided on. However the space in his studio wasn’t enough. So the artist decided to move to the country, to the gates of Rome near the area of Castelli, where he opened a huge, airy studio in a villa which could accommodate the whole work as it developed.

Then here are the eighteen panel finished. Every panel is two meters high and cover a surface of 90 square meters. The material used is a marble-resin, that is a powder of crushed marble with a resin that make a consistency capable of standing up to atmosphere adversity and this is why the work is able to be shown outside, which will probably returning to Rome for the Holy year. It is a material more resistant but also lighter than marble and on which the artist worked directly during the last phase, like the ancient artists, taking the movement of his hands the thrill of the emotion he created.BY LUCIANO LUISI

Robazza e Dante

Non so immaginare se il maestro Robazza cominciando quest’opera abbia cercato, abbia guardato con gli occhi della memoria, le infinite immagini dantesche che nei secoli gli artisti hanno creato in tutte le latitudini, con ogni possibile linguaggio.

Non so se il ricordare alcuni sommi che si sono accostati con timidezza alla commedia, gli abbia fatto tremare il cuore e la mano. Certo avrà avuto presenti, come tutti, le illustrazioni più rispondenti, nell’immaginario collettivo, alla visionarietà dantesca, e cioè le illustrazioni ottocentesche di Gustave Dorè che ci hanno accompagnato negli anni di scuola, che hanno reso visivi i versi di Dante per la maggior parte dei suoi lettori.

Ma prima del Dorè, nei secoli precedenti, quanti si sono accostati a quella fonte? Ecco, ora, stimolata da quest’opera di oggi, di un artista vivente, possiamo ripercorrere quella lunga fila che conduce fino a Robazza.

Le più lontane illustrazioni della Commedia di cui si ha notizia risalgono agli inizi del ’300, con disegni che aprono generalmente i canti, ne introducono lo scenario. Quei primi manoscritti erano impreziositi non soltanto da disegni a penna, ma anche da raffinate lineature. Fra i più famosi è il manoscritto “Egerton” riccamente miniato, e che ora si trova nel British Museum di Londra, e anche il coevo (siamo attorno alla metà del quattordicesimo secolo) “Codice Palatino”, conservato nella Biblioteca Nazionale di Firenze. Ma è sopra tutto in quella fertile stagione a cavallo fra il quindicesimo e il sedicesimo secolo, e in particolare dopo che il grande umanista Cristoforo Landino aveva letto e commentato il poema dantesco nello spirito della filosofia che era propria della corte di Lorenzo il Magnifico, fu in quella felice stagione, dicevo, che apparvero le più alte interpretazioni visive del poema da parte dei sommi artisti del tempo.

Primo fra tutti il Botticelli che aveva espresso il suo ideale di bellezza, rispondente al raffinato umanesimo della corte medicea, quando dipinse la famosissima “Primavera”. Ma dopo il viaggio che compì a Roma, dove fu chiamato per lavorare alla Cappella Sistina, si accorse che la sua personalità non era racchiudibile in quella visione del mondo, e si sentì lontano da quella stupida filosofia che sembrava voler paludare la realtà di miti e magia, e fu sconvolto da una profonda crisi religiosa.

Con quello spirito si accostò alla Commedia, quasi per compiere, come Dante, un viaggio di purificazione. E ciò appare comprensibile se si pensa che si attribuiva

al Poema anche il valore di una rivelazione e se ne dava lettura in chiesa.

Nascono così quelle tavole pervase da una accesa spiritualità e alle quali il pittore affidava il compito di condurlo a quella serenità alla quale anelava. Realizzate in due tempi diversi, come si nota dalla diversità del segno, ne sono giunte a noi 92 custodite in parte nella Biblioteca Vaticana e in parte nel Gabinetto delle stampe di Berlino.

Accanto a Botticelli, suo coetaneo (anch’egli del 1445, ma più longevo di trecidi anni, essendo scomparso nel 1523), il cortonese Luca Signorelli lascia, come suo capolavoro, la serie di affreschi del Duomo di Orvieto, ispirati al poema dantesco. Dove è da ammirare, accanto alla ricchezza compositiva, la grande potenza drammatica, la plasticità dei corpi (e per questa sua attitudine il pittore ha dato più risalto all’Inferno che gli era più affien), elementi che appaiono come quelli ai quali certamente si è rivolto Michelangelo, la cui opera maggiore, la Cappella Sistina, è chiaramente di matrice dantesca. “E chi dubita - scrive Benedetto Varchi -,  celebre commentatore cinquecentesco della Commedia – che nel dipingere il Giudizio nella Cappella, non gli fosse l’opera di Dante, la quale egli ha tutta nella memoria, sempre dinnanzi agli occhi?”.

A Dante (che Signorelli ha effigiato con l’alloro sul capo, nel Duomo orvietano) guarda anche il più giovane Raffaello che ritrae il Poeta ( anche per lui cinto di alloro) nella grandiosa “Disputa del Sacramento” e nel “Parnaso”, affrescati su due pareti della stanza della Segnatura in Vaticano. L’amore per il Poeta era nato in lui dall’amore che ne avevo suo padre, che era poeta e che aveva scritto un poema in terza rima (“Cronaca rinata” si intitolava) in cui, prendendo la Commedia a modello,si perde in una selva, è sedotto dai piaceri ma ne vince la tentazione.

Non possiamo che a salti vedere come ogni tempo abbia dato, attraverso gli artisti, il suo contributo di omaggio a Dante e al suo poema, e ci soccorre, come una ideale antologia, una bella iniziativa presa dal prof. Corrado Gizzi che a Torre dei Passeri, in prossimità di Pescara, ha costituito una Casa di Dante con uno straordinario museo che da anni ormai presenta ai critici e agli appassionati  di tutto il mondo i testi più rari, più inaccessibili dell’iconografia dantesca. Qui abbiamo potuto ammirare i disegni del grande manierista cinquecentesco Federico Zuccai, un artista che si è formato nella tradizione raffaellesca, come è evidente dalla bellissima serie di illustrazioni della Divina Commedia. Sono 88 disegni di circa 60 per 40 centimetri, eseguiti in matita rossa e nera per l’Inferno, a penna e bistro generalmente quelli per il Purgatorio; con la solita matita rossa per il Paradiso, e sempre con un segno netto, scandito come fosse quello di una incisione. Quello che le sue figure “perdono in scioltezza e dinamicità di

movimenti – scrive Barilli – lo acquistano in una ardita stilizzazione dei loro profili”.

Accanto allo Zuccai ecco, in un’altra mostra rivelatrice, il suo contemporaneo, il fiammingo Jan Van Der Straet, italianizzato in Giovanni Stradano, che nacque a Bruges nel 1523 ma visse a Firenze (dove morì nel 1605) lavorando a fianco del Vasari. Quanto quelle dello Zuccai sono lineari e rigide, così le figure dantesche dello Stradano sono corpose e carnali, persino nell’immagine di Francesca, che formosa com’è, potrebbe avere qualche difficoltà a volare nel cupo cielo dei lussuriosi. Ma il drammatico realismo, la profondità delle scene, il gusto minuzioso per il dettaglio anche macabro, danno a queste opere una grande efficacia emotiva.

Una particolare attenzione merita un gruppo di artisti vissuti fra il diciottesimo e il diciannovesimo secolo, che “inquietarono a fondo le acque della modernità offrendo più di un preannuncio dell’arte contemporanea”, coem osserva acutamente Renato Barilli, proprio analizzando alcune delle mostre che si sono succedute a Torre dei Passeri. Hanno, alcuni di loro, una concezione visionaria dell’arte, con componenti ossianiche e sepolcrali, e dunque quasi naturalmente portati a ritrovarsi nell’universo dantesco. Il primo in ordine di tempo è Heinrich Fussli, nato a Zurigo nel 1741, ma naturalizzato inglese e morto a Londra nel 1825. Nella sua autodefinizione di “pittore ufficiale del diavolo” c’è già il senso magico della sua opera e c’è davvero da credere, come ha scritto Fortunato Bellonzi, che “tra le fonti della visionarietà di Fussli i sogni della Divina Commedia contassero infinitamente più che le ricerche del soprannaturale, del misterioso e del tragico della letteratura neogotica”.

Non poteva che subire l’ascendente di Fussli, il grande poeta e incisore William Blake (nato a Londra nel 1757 dove è scomparso nel 1827) il cui talento letterario e artistico, profetico e allucinato, la profonda e inquieta religiosità, appaiono come il presupposto per accostarsi con dedizione alla Divina Commedia.

E se diceva:”Non provo timore né vergogna né reticenza a dirvi che io sono il giorno e la notte guidato da messaggeri che vengono dal cielo”, ciò fa comprendere come l’incontro con Dante abbia sommosso una consanguineità che lo condusse al lavoro sfibrante anche perché volle imparare l’italiano per leggere direttamente il poema. Era gi vecchio quando cominciò a creare la “sua” Divina Commedia della quale ci restano cento tavole, con una base disegnata e poi compiute con l’acquerello, di straordinaria bellezza. Anche se appaiono di grande libertà interpretativa nei confronti del testo, si può convenire con Bellonzi che Blake ha eretto “il maggiore monumento iconografico dell’età moderna alla Divina Commedia”.

Di diversa natura e proteso verso una visione di compiutezza formale, John Flaxman (nato a York il 1755) raffinatissimo scultore neoclassico, ci lascia una serie di illustrazioni dantesche di elegante linearismo. Lontano dai tumulti che attraversano l’animo di Fussli e di Blake, attratto dalla purezza del mondo classico, Flaxman riesce a ricondurre al proprio ordine, al proprio equilibrio, anche i suggerimenti violenti dell’Inferno.

Di tredici anni più giovane, Joseph Anton Kock (nato a Obergibeln, in Austria) ha avuto, come gli altri, la sua luinga esperienza romana avendo aderito al gruppo dei Nazareni, come furono detti quei pittori che, animati da spirito religioso e per la maggior parte cattolici, auspicavano un ritorno alle forme spoglie del quattrocento. A Roma Kock si affermò come paesaggista, ma quando fu invitato ad affrescare la Stanza di Dante, nel Casino Massimo, l’invito non lo colse impreparato perché da molti anni aveva cominciato a lavorare attorno al progetto di una illustrazione della Divina Commedia. I suoi affreschi, come pure i disegni che li precedettero, sono di grande forza drammatica.

E infine Dante Gabriele Rossetti, figlio di un poeta e patriota italiano di famiglia abruzzese. Nato nel 1828 a Londra, dove il padre si era rifugiato, crebbe nell’amore di Dante comune a tutti i suoi congiunti. Affascinato dalle istanze dei Nazareni si volse verso quegli ideali, anche se la sua vagheggiata religiosità appare più estetizzante che sentita. Resta tuttavia il più suggestivo artista di quel gruppo che proprio prendendo a modello la pittura del giovane Raffaello e la purezza del Beato Angelico, fu detta dei Preraffaeliti. Di quella lezione è riconoscibile il colore luminoso e acceso, ma non la chiarezza dell’anima che in Rossetti appare spesso ambigua, riflettendo anche la sua vita. Ed è interessante vedere come nelle opere dantesche di Rossetti, che ruotano attorno a Dante e Beatrice, vi siano riflessi della sua inquietante biografia.

Abbiamo voluto percorrere velocemente, per brevi cenni, qualche tratto della vastissima iconografia dantesca, e il lettore attento potrà aggiungere altri nomi di artisti che si affacceranno alla memoria, ma pur nell’incompletezza di questo veloce excursus, vogliamo venire almeno più vicini a noi, al nostro tempo, anche per accostarci poi all’opera di Benedetto Robazza.

A cavallo fra l’ottocento e il nostro secolo fa spicco la figura di un pittore singolarissimo, Alberto Martini, che quasi soverchiò, con la sua visionarietà surrealistica e luciferina, i pur agghiaccianti scenari danteschi. Scrive infatti Ferruccio Ulivi: ”La serie dantesca si alterna fra l’evocazione dell’orrido cupo e lutulento, intersecato da fosforescenze, come nella figurazione della palude di Stige, e la terrificante monumentalità”. E si veda lo stravolgimento allucinante

delle tre fiere all’inizio del poema per capire dove possa giungere la fantasia

morbosa di questo artista.

Non vogliamo soffermarci sui componenti (abbiamo conosciuto illustratori di Dante in molti paesi stranieri) se non per ricordare almeno i bei disegni a penna di Renato Guttuso, di forte impatto drammatico e i freschi e ariosi acquarelli di Aligi Sassu e, fuori casa, la famosa serie di Dalì.

Tutti pittori e disegnatori, dunque. Pochi gli scultori che hanno dedicato qualche “pezzo” alla Commedia: Rodin, fra loro, il più famoso.

Quello di Benedetto Robazza è dunque nel tempo, nel mondo, la prima completa illustrazione dell’Inferno, compiuta con il mezzo, certo più ostile, della scultura, e l’esemplarità di questo cimento trascende persino il valore così specchiante dell’opera. LUCIANO LUISI

L'Opera vista da un Dantista

Vedere dal vivo la lunga teoria di altorilievi narranti L’Inferno di Dante è una esperienza indimenticabile.La scultura del Maestro Robazza è vigorosa e possente ,filologicamente esatta, da profondo conoscitore e amante della “Divina Commedia “.

 

Robazza imprime nei volumi le sensazioni che il Pellegrino, in compagnia di Virgilio, riceve dall’impatto con il mondo dei dannati.

 

Selezionando, scomponendo, isolando ogni figura, ripetendo a mente le terzine ritratte, i due linguaggi differenti, la parola e l’immagine, compongono un’emozione intraducibile.

 

Robazza ha scolpito con il cuore la passione dell’ “itineriarium mentis in Deum” entrando dentro i personaggi stessi e usando una tecnica di cui lui solo ha il segreto.

 

Le atmosfere si addensano intorno ai momenti drammatici e lirici del Poema, specie quando si ha a che fare con il dolore tenero di Paolo e Francesca o col dolore devastante del Conte Ugolino.

 

A Robazza va lode di non aver tralasciato i gruppi dei penitenti, di aver segnato a forti contrast chiaroscurali e volumetrici pure coloro i quali sono infitti nel ghiaccio al fondo dell’imbuto, alcuni fino al collo, altri riversi,altri ancora lontani e sfocati come in un incubo.

 

Gerione,Farinata,Caronte,Ciacco,Filippo Argenti,Brunetto Latini, Ulisse e Diomede nonché uno dei migliori quadri del Maestro cioè la metamorfosi dell’uomo in serpente atraverso la fusione dei corpi impressa plastica nel marmo.

 

Robazza è riuscito a rendere vivo e suggestivo il suo commento al Capolavoro di Dante con una realizzazione visiva e plastica di un monumento supremo in suoni e parole. ALDO ONORATI