Giunto alla pienezza della sua maturità artistica, lo scultore Benedetto Robazza, sembra aver voluto tirare le fila della sua lunga e intensa esperienza umana, e del suo lavoro che lo ha portato al successo in giro per il mondo, con una impresa di vasto respiro creativo e di alto segno morale. Avendo conosciuto, come uomo e come artista, tutte le strade della solitudine, della miseria e del dolore, e avendo sofferto vittoriosamente una sua lunga e privata lotta fra il bene e il male fin dalla lontana fanciullezza, era quasi prevedibile che la sua mente e il suo spirito si volgessero al testo più alto e più temibile della nostra letteratura, della poesia del mondo, cioè alla Divina Commedia, e, più particolarmente, all’ Inferno, dove i fantasmi della colpa e della punizione appaiono come la più tremenda metafora dei dissidi, dei tormenti, delle lacerazioni dell’animo umano.
L’ Inferno, dunque. L’Inferno come un grande specchio in cui si riflette la condizione stessa del nostro vivere, delle lotte che dilacerano l’uomo nella sua aspirazione al bene e nell’attrazione ineluttabile del male, ma anche i tragici tumulti della storia, le lotte fratricide, i grandi egoismi ammantati di false idealità. Tutto questo certamente Robazza deve aver veduto e sentito nel “suo” Inferno, che viene dopo tante opere in cui il maestro ha stigmatizzato le colpe della convivenza civile, le tirannie, i soprusi, opere con le quali si è fatto testimone del dolore del mondo, e dell’ingiustizia della storia.
Ecco dunque quest’opera gigantesca, questo impegno totale, che ha richiesto certamente anche una straordinaria forza fisica, una vigile tensione morale, una lotta continua con la resistenza della materia, e con l’angustia dello spazio.
Il maestro Robazza ha fatto propria la visionarietà dantesca, portando al suo vertice espressivo la sua naturale tendenza a “far grande”, ad amplificare i gesti dei suoi personaggi, a dar loro una carica espressionistica, pur nel forte realismo, che è la connotazione più riconoscibile della sua scultura. E insieme a dare una decisa e leggibile impronta fisionomica ai volti dei personaggi che lui chiama alla vita della forma, come già nella serie ricca e famosa dei suoi ritratti che lo hanno fatto chiamare dalla presidenza degli Stati Uniti alla coorte di Thailandia. Non credo che Robazza abbia avuto esitazione nello scegliere il mezzo, cioè il genere scultoreo con cui realizzare questa grande impresa. Non, ovviamente, il “tutto tondo” che appare improponibile per un così vasto racconto, né il semplice bassorilievo che, considerato anche il carattere e la sensibilità dell’artista, avrebbe di troppo attenuato la perentorietà dei gesti, la drammaticità delle azioni,
la forza della rappresentazione. E invece, giustamente, l’alto rilievo, lo strumento più congeniale alla sua arte, che ha sempre fatto suonare con orchestra piena e che, in questo cimento, il maestro regola su registri che vanno dal più forte e incisivo oggetto, fino al più pittorico “stiacciato”, ottenendo effetti di grande suggestione.
Gli esempi nella sua folta produzione non mancano a preannunciare questa logica scelta, e basterebbero, anche se di più limitate proporzioni, opere come “Panico”, “La nostra vita”, “La vittoria di David”, o, meglio, la stele “Roma 13 novembre 1982” collocata nel romano Viale Mazzini, all’esterno della chiesa “Cristo Re”.
Ma c’è un altro carattere dell’arte del maestro Robazza che poteva preannunciare il progetto, il sogno di questo ciclo, ed è la sua naturale “narratività”. Già riscontrabile nella sua stagione pittorica di matrice realistica, nella quale la carica espressionistica è affidata all’irruenza del colore, (e si vedano opere come “Alluvione”, come “Apocalisse”) quella sua predisposizione al narrare, è evidente, in tutta la sua felicità espressiva, nella forza sintetica di tre pannelli di bronzo con cui Robazza “racconta l’Apocalisse” (tema che gli è evidentemente congeniale). Sono tre pannelli nei quali vibra ancora la mano dell’artista sulla creta che è come percorsa, attraversata, dall’impeto con cui è stata trattata. Sembra vi si possano ancora cogliere i gesti del modellare, e l’intervento degli “strumenti” del mestiere, le spatole, le sgorbie, che segnano, marcano, incidono, danno plasticità e rilievi ai movimenti e alle scene come quelle dei “Quattro Cavalieri e i morti restituiti dalle acque”.
A guardarli oggi, sia pure col senno di poi, queste grandi tavole (e si noti quanti sinuosi corpi di donne, e quanti cavalli impennati vi campeggiano), ci è facile immaginare che il Benedetto Robazza avrebbe teso ad un impegno ancora più vasto, che sarebbe stato folgorato, come tanti artisti nel tempo, dalla sfrenata fantasia visiva dell’ Inferno dantesco.
Per quanto tempo quel sogno è stato chiuso in lui, per quanto tempo è cresciuto nella sua mente, nel suo spirito, fino a diventare progetto, fino a farsi volontà ormai irrinunciabile di realizzazione? Alcuni anni fa, in occasione della presentazione a Roma di una sua monografia che avevo curato, nella grande sala della libreria di Remo Croce, sopra il tavolo dei prese4ntatori era appeso un pannello che rappresentava un primo incontro di Robazza con il mondo del Poema. Fu quello il germe dopo il quale l’idea ha preso corpo nella sua interezza. Ed ecco allora un continuo, sempre più fervido rapporto con quel testo: sono disegni, appunti, abbozzi che si moltiplicano e riempiono i tavoli del suo studio romano. Poi nascono i bozzetti, gli studi dei personaggi, degli ambienti, dei
mostri che i versi danteschi suggeriscono e la fantasia accresce, precisa, rende concreti. Viene poi definita l’impaginazione di ogni scena, i rapporti di equilibrio fra le figure e le masse, tra i protagonisti degli episodi e il passaggio luciferino. Tutta la materia da trattare (i trentaquattro canti) viene suddivisa in diciotto pannelli che conterranno ognuno due e più canti, o anche soltanto uno solo se le sollecitazioni del racconto trovano una maggiore rispondenza nella sensibilità dello scultore. In definitiva, nonostante si attenga al testo, deve maggiormente dare spazio e forma a quei momenti che trovano in lui una più accesa risposta creativa. Stabilito questo piano, questa impostazione, tutto quel lungo lavoro preparatorio viene tradotto in pannelli di 60 per 70 centimetri. Ormai non resta che l’ultimo passo, il più temerario: tradurli nella misura definitiva prevista. Ma lo spazio dello studio non basta. Allora il maestro decide di trasferirsi in campagna, alle porte di Roma, verso i Castelli, dove apre in una villa un grande studio arioso e vasto che può accogliere, in tutta la sua ampiezza, il lavoro che si avviluppa.
E ora eccoli i diciotto finiti. Ogni pannello è di due metri per altezza per 2,50 di larghezza, e dunque insieme costituiscono un nastro di quarantacinque metri, e coprono una superficie di 90 metri quadrati.
La materia usata è marmo-resina, cioè una polvere di marmo pressata con una resina che conferisce una consistenza capace di resistere alle avversità atmosferiche, e ciò perché l’opera abbia la possibilità di essere esposta all’aperto, cosa che accadrà forse più volte durante il lungo giro del mondo che compirà prima di tornare a Roma in occasione dell’Anno Santo. Una materia più resistente ma anche più leggera del marmo, e sulla quale l’artista ha lavorato direttamente nell’ultima fase, come gli antichi, portandovi lo scatto della mano, il fremito dell’emozione che crea. LUCIANO LUISI